New York. Born back into the Past (Il Foglio)

Forse è  New York come l’avrebbe immaginata Girogio De Chirico – e come in effetti De Chirico la vide: “Strano come nella città di New York mi sembrava di essere morto e rinato in un altro pianeta”. E le meravigliose foto di questo bel volume proprio questa sensazione di stupore e di straniamento provocano: perchè sono foto della più famosa città del mondo, ma quasi si fa fatica a riconoscerla. Non c’è folla, non c’è caos, non ci sono ingorghi. Così certo dev’essere stata, ma così di sicuro nessuno di noi l’ha mai vista. New York (quasi) prima di New York. Sono foto senza datazione precisa, ma che dovrebbero risalire agli anni Quaranta, tra quelli della guerra e quelli immediatamente successivi. Si intuisce dalle macchine, dai vestiti, dai marciapiedi spopolati. E da un particolare, che osservando con attenzione le foto dopo un po’ salta agli occhi: per strada, sono quasi tutte donne. E molti dei pochi uomini ritratti sono in divisa. Sono foto che si osservano con curiosità. E che contengono a loro volta un duplice mistero: non solo su quando furono scattate – a parte la straordinaria antropologia architettonica e di costume che contengono – ma anche si chi le scattò. Giunte come un dono, ma inviate fino a noi da un misterioso mittente. Due anni fa, Stefano Lucchini accquistò quello che definisce, in un breve scritto, “un curioso album di foto” – queste: di una città “dianamica nel suo essere una grandiosa metropoli, perfetta nei suoi palazzi, luninosa malgrado gli scatti in bianco e nero”. Ma di chi era all’origine quello sguardo – chi cercò i luoghi e chi li fotografò – questo probabilmente non si scoprirà mai. E infatti annota in un altro scritto Gianni Riotta: “Un artista ignoto, scoperto da un viaggiatore italiano, ci riporta per mano tra la folla che compra un biglietto s Grand Central: e dove saranno andati, verso quale business, che vita, che destino, quelle sagome ignote, nostri padri, madri, fratelli?”. Se si sfoglia il libro, se si seguono le deboli tracce che l’autore ha lasciato, “trascrivendo con cura accanto a ognuna gli angoli delle strade e il nome degli edifici, quasi preoccupato di non farci smarrire” – annota a sua volta Geminello Alvi, che scrive un breve saggio introduttivo al volume: quasi come portati per mano da un fantasma – si resta non poco meravigliati: anche questa era allora New York? E immediatamente dopo: chi ce la sta raccontando così? Alvi si produce in un dettagliato racconto delle fascinose immagini che seguono – molte accompagnate da belle citazioni di scrittori e artisti che New York hanno raccontato, da Truman Capote a Paul Auster, da Henry James fino Salvador Dalì, “la poesia di New York è quella di un gigantesco organo dalle molte canne d’avorio rosso – che non raschia il cielo, risuona in esso con l’estensione delle sistole e delle diastole del cantico viscerale di biologia elementare…” – ma soprattutto la sua è quasi un’indagine, inquadratura dopo inquadratura, per cercare di far riemergere, tra il bianco e il nero, l’ignoto fotografo. E così, perchè parte da Pennsylvania Station? “Vi arrivò da ragazzo da chissà dove o ci incontrò al primo appuntamento la moglie o vi si perse, vagandovi annoiato”. E magari “il nostro anonimo è uomo forse anziano, che si ritaglia una ben strana New York… La New York di questa raccolta è calmata dal ricordo… non c’è una sola immagine che ne dia la sua frenesia che contagia il mondo… Ma il nostro è alla ricerca di un senso morale…”. immagini che lasciano dentro una sorta di stupore – è New York e non pare New York – che si trascinano nel loro chiaroscuro, strada per strada, grattacielo per grattacielo, un fascino giunto intatto fino ai giorni nostri, e un mistero (forse) irrisolvibile che nei giorni nostri è diventato tale.