La e-lezione di Obama (dimit.it)

Il passaggio dall’always “on” all’always “in”, ovvero la differenza tra l’essere sempre connessi (on, oppure wired) e l’essere sempre immersi in reti umane, ascolti e conversazioni (in) è significativo sotto tanti punti di vista. Nella comunicazione, perché esprime un’evoluzione da sistemi monadici chiusi  – con il singolo che si collega individualmente, verticalmente e gerarchicamente con una rete impersonale quasi sovraordinata – ad ambienti aperti dove le relazioni sono frutto di immersioni permanenti, orizzontali e non gerarchiche con altri “pari” o supposti e sedicenti tali.

Ma la differenza tra connessione e immersione è importante anche sotto altre prospettive, come quella della privacy e della raccolta di dati personali. La gratuità dei social media è infatti un piccolo miraggio frutto della sottovalutazione della messa a disposizione, spesso inconsapevole, di enormi masse di informazioni sul proprio conto a favore di terzi. Terzi che partecipano all’immersione e che le utilizzano per fini diversi e non sempre tutti leciti. Tra quelli leciti, sebbene talora inopportuni e maldestri, di certo troviamo il marketing commerciale e quello politico che diventano parte di una strategia operativa che si serve, declinandoli nel concreto, di elementi reali e digitali.

Beh, leggendo tutto d’un fiato La Lezione di Obama di Stefano Lucchini e Raffaello Materazzo (prefazione di Mario Calabresi, postfazione di Roberto D’Alimonte, ed. Baldini&Castoldi) il pensiero è andato subito lì: cioè alla eccezionale capacità di alcuni leader politici di miscelare l’uso della rete con un fattore umano di empatia e fine tuning autentico con l’interlocutore in carne ed ossa.

Lo straordinario successo di Obama nelle presidenziali americane del 2012 può essere letto in tanti modi e tutti veri. Li elencano con ricchezza di indizi e prove empiriche gli autori, li teorizzano gli scienziati politici. Dal bisogno di cambiamento e speranza intercettato dal candidato Obama alle elezioni del 2008 si è passati ad una inedita capacità di mobilitazione di un patchwork di minoranze (al più) vocianti trasformandole in maggioranza votante. L’”hope and change” della prima campagna si è evoluto – chiedo scusa per il banale gioco di parole – in un “hop on”, in un “salta su”. Gruppi ai margini, per etnia, età, censo, sesso e comportamenti sessuali, condannati ad una “spirale del silenzio” che tanto più si protrae tanto più si avvita, sono stati trasformati strada facendo, durante la seconda campagna elettorale, in protagonisti di una vittoria che ha coinvolto prima di tutto i cosiddetti battleground States, gli Stati in bilico, mirandoli nei dettagli.

Quel mirino, è stata la rete. Usata in modo molto più efficace da Obama e il suo staff rispetto al repubblicano Romney. Un mirino che si è concentrato sulla raccolta di fondi e di voti, sulla costruzione di veri e propri ponti verso il territorio, bussando alle porte degli elettori in senso fisico e virtuale. Sostituendosi in parte alla televisione, così come negli ultimi decenni il tubo catodico aveva parzialmente sostituito la macchina organizzativa dei partiti politici.

Anche le elezioni del 2008 erano state vinte grazie all’apporto della viralità, come dimostra la fortuna dello slogan “Yes, we can”. Ma nel 2012 l’uso dei social media si è concentrato sul microtargeting, sull’analisi minuziosa e laboriosa dei dati personali, sullo studio degli stili di vita, dei gusti, delle preferenze individuali.

Una raccolta di informazioni gigantesca ma analitica, scientifica, che ha ficcato il naso nella narrativa e nella vita delle persone così come espressa e riportata nell’utilizzo permanente – always in, appunto – dei social media, da twitter a facebook, senza dimenticare i media più visual. Quell’engagement minimo degli “i like”, quello più consistente dei commenti, è stato ispirato, provocato, elaborato, interpretato, utilizzato.

Il libro, con una titolazione e impostazione molto americana, parla di “lezione” di Obama, e addirittura dei dieci comandamenti di una buona campagna elettorale. Non li elencherò, i comandamenti, con un piccolo effetto teaser che spero invogli i nostri e-lettori.

Ecco, la lezione di Obama in sintesi, è tutta qui: l’elezione di un candidato diventa sempre più e-lezione, per l’uso combinato di elementi reali e digitali, dove nessuno prende definitivamente il sopravvento sull’altro, ma si fonde in un mix calibrato nella situazione contingente. Senza dimenticare che l’uomo – quell’uomo sondato, analizzato, scomposto – è sempre un fine, mai quel mezzo verso il quale si rischia di scivolare attraverso un uso non lecito e non etico dei social media. Quel fine, nel caso, nel sogno di Obama, era il più che legittimo tentativo di migliorare la vita dei suoi concittadini, facendoli “saltare su”. Hope and hop (on). Il mid term di novembre, dopo i primi esiti della riforma sanitaria approvata e subito tweettata dal presidente, dirà qualcosa in proposito. Chissà come e con quali strumenti la prepareranno e ascolteranno, Obama e il suo staff, la verifica di metà mandato.

E chissà se dalla e-lezione di Obama ci sarà qualche spunto per la nostra politica, alla vigilia del rinnovo del Parlamento Europeo. Una tornata elettorale particolarmente importante, per il nuovo ruolo dell’organo di Strasburgo ai fini della presidenza della Commissione. Anche qui, giocando con le parole, le citazioni e le lingue, sembra però finora una (campagna) politica che se non politicienne, appare ancora un po’ troppo…ancienne.

Gianfrancesco Rizzuti