Per Obama una «rete» di sicurezza (Il Sole 24 Ore)

Pubblichiamo un estratto della postfazione di Roberto D’Alimonte al libro La lezione di Obama. Come vincere le elezioni nell’era della politica 2.0, pubblicato dall’editore Baldini&Castoldi.

Quando la rete è entrata nelle nostre vite non c’è voluto molto per chiedersi se e come avrebbe trasformato il modo di far politica nelle nostre democrazie. Sul se ci sono sempre stati pochi dubbi. L’incertezza verteva sul come. Adesso abbiamo una risposta.
Non ancora definitiva, ma il trend è chiaro. Le due campagne presidenziali di Obama, soprattutto quella del 2012, rappresentano da questo punto di vista uno spartiacque. È quello che emerge chiaramente dalla lettura di questo bel libro (La lezione di Obama. Come vincere le elezioni nell’era della politica 2.0, di Stefano Lucchini e Raffaello Matarazzo, ndr).
Nell’era di internet la politica è destinata a cambiare profondamente. E ancora una volta il cambiamento viene dagli Usa. Un giorno forse scopriremo che le elezioni presidenziali del 2012 rappresentano mutatis mutandis un punto di svolta come lo furono quelle del 1960 tra Kennedy e Nixon. Allora fu la televisione a fare la differenza. Kennedy sarebbe diventato presidente senza la sua abilità nello sfruttare meglio di Nixon le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione di massa? Nel 2012 la differenza l’ha fatta la rete. Obama ha vinto perché ha conquistato gli stati in bilico, i battleground states. E lo ha fatto anche perché ha usato il web in maniera di gran lunga più efficace rispetto al suo avversario.
Ciò non vuol dire che la rete abbia sostituito la Tv come capacità di influenzare l’opinione pubblica e il comportamento di voto. Lo dimostra, tra l’altro, Il primo confronto televisivo tra Obama e Romney in cui la cattiva performance del presidente uscente ne ha messo a rischio per un momento la rielezione. Ma la rete oggi è diventata uno strumento che non può essere ignorato da nessun candidato o partito perché può fare la differenza tra vincere e perdere. Questo è certamente vero negli Usa. Ma dopo le elezioni dello scorso Febbraio e la straordinaria performance del Movimento Cinque Stelle comincia ad essere vero anche da noi, anche se l’uso della rete da parte di Obama e di Grillo è stato molto diverso.
Ma non basta parlare genericamente di web politics. Uno dei meriti di questo volume è quello di spiegare nei dettagli come la rete sia stata scientificamente utilizzata sia per acquisire finanziamenti che per catturare consensi. Questa è la vera novità. Obama non è stato il primo a sfruttare elettoralmente internet. Prima di lui lo aveva fatto Howard Dean nel 2004 con la sua Democracy for America. Ma Obama ha fatto la vera differenza. Già nelle presidenziali del 2008 si era visto come la rete potesse essere uno strumento straordinario di raccolta di fondi, così come lo era già stata, ma in misura assai minore, per Dean. Quattro anni dopo non solo ha accresciuto la sua efficacia in questo ambito, ma ha acquisito anche un ruolo molto importante nella raccolta di voti diventando il perno di una macchina elettorale mai vista prima nella politica americana. Facebook, con i suoi 160 milioni di utenti che rappresentano quasi tutto l’elettorato attivo americano, oltre a cellulari, smart phone e tablet, posseduti dal 90% degli elettori registrati, sono diventati i nuovi protagonisti della politica Usa. Soprattutto in mano al partito di Obama, visto che ne hanno fatto uso il 37% degli elettori democratici contro il 25% tra quelli repubblicani.
Le vecchie organizzazioni di partito fanno fatica a mobilitare i vecchi elettori e non riescono affatto a mobilitare i nuovi. La gente non vota perché non si sente coinvolta. La rete invece coinvolge. Attraverso i social networks gli elettori, soprattutto quelli più giovani, possono sentirsi partecipi di un processo in cui non sono attori passivi. Possono interagire con i candidati e con altri elettori. Ma perché questo avvenga l’organizzazione non può essere lasciata al caso. Il sapiente uso della rete e dei social media è il frutto di un meticoloso lavoro di raccolta di dati. Usando i profili dei 34 milioni di fan del presidente Obama e incrociando questi dati con informazioni provenienti da una molteplicità di altre fonti è stato creato un enorme database che nelle mani di uno sconosciuto guru informatico di nome Jerry Bird è diventato il cervello della campagna elettorale di Obama. In questo modo si è potuto specializzare i messaggi calibrandoli in base alle caratteristiche personali dei destinatari. L’idea di fondo è semplice: è più facile coinvolgere gli elettori se ne si conoscono le preferenze, le preoccupazioni, le priorità, le sensibilità.
Ma la campagna di Obama non si è limitata all’uso della rete come canale di comunicazione. Ha fatto un ulteriore passo avanti, ancora più innovativo. Come scrivono Lucchini e Matarazzo «i social media hanno funzionato da ponte verso il territorio” e quindi da canale di mobilitazione dal basso. In altre parole hanno preso il posto delle vecchie organizzazioni locali di partito e così facendo hanno contribuito a colmare il gap tra candidati e elettori. La campagna di Obama è stata anche una campagna porta a porta. Un porta a porta digitale, però. Queste elezioni hanno dimostrato che il porta a porta funziona ancora – anzi può essere l’arma vincente – ma diventa veramente efficace in mano a volontari o organizzazioni di partito che conoscono chi c’è dietro la porta. Fuor di metafora, la mobilitazione dal basso raggiunge il suo scopo di acquisire finanziamenti e voti se chi ne è protagonista conosce il profilo di coloro che si vuole mobilitare. Questo è uno dei segreti della campagna di Obama: la combinazione di tecnologia digitale, social media e contatto diretto. Nuovo e vecchio modo di far politica mescolati insieme. La rete non sostituisce il militante che va casa per casa, ma lo aiuta e ne rafforza il ruolo.
È così che internet diventa “una chiave per affrontare la crisi tra opinione pubblica e élites che attraversa tutte le democrazie d’Occidente”. Negli Usa con Obama e la sua eccezionale organizzazione il processo ha fatto un significativo balzo in avanti. In Europa siamo ancora agli inizi. Ma prima o poi ci arriveremo.

Roberto D’Alimonte