New York rinasce dal suo passato (Il Tempo)

Libro Dalla collezione di Stefano e Silvia Lucchini una raccolta di foto indiscrete sulla Grande Mela

Quella New York raccontata dallo scrittore John Cheever sembra accompagnare silenziosamente le foto salvate da Stefano e Silvia Lucchini in un libro toccante («New York Born back into the past», edizioni Alinari 24 ore, pagine 144) che offre uno sguardo insolito della Grande Mela. Dagli scatti in bianco e nero emergono sia personaggi anonimi sia frotte di affaccendati businessmen che si perdono sotto la maestosità della Grand Central Station o del Rockfeller Center. Spiccano giornali sotto il braccio, Borsalino sulle teste dei signori, mentre le donne camminano in gran fretta avvolte da abiti aderenti e calze di nylon, sfoggiando cappellini vezzosi. Salta agli occhi la New York degli anni Quaranta, ma per certi versi sempre la stessa, riconoscibilissima, per i suoi pub, i bar fumosi e gli artisti di strada. Lo skyline disegna la sagoma dell’Empire State Building, all’epoca il grattacielo più alto, poi sfidato dalla vita fugace delle raffinate Torri Gemelle che non si vedono più, nelle foto di allora come nella realtà di oggi. Ma le tradizioni restano, come quella dei giochi sull’acqua nel laghetto di Central Park, che pullula di famigliole serene, di mamme che tengono per mano i loro bambini inguainati da calzoncini corti retti dalle bretelline. Anche allora i poveri erano poveri e sbirciavano tra le vetrine, sotto la neve o nell’afa estiva, osservando con amarezza i sorrisi allegri delle signore eleganti, colme di pacchetti appena comprati, da Tiffany, da Saks o da Liggett’s Drugstore. Ed ecco che si staglia, tra il chiaro scuro, la svettante Cattedrale di San Patrick sulla Madison Avenue: lì vennero celebrati i funerali di Bob Kennedy, con l’orazione struggente del fratello Ted. Lì venne recitato il Requiem per i caduti dell’11 settembre. E sempre lì centinaia di turisti ogni giorno si inginocchiano a pregare davanti alle reliquie di San Patrizio, patrono della città. Sono tanti e commoventi questi scatti di una New York ancora divisa in bianco e nero, nelle foto come nella quotidianità di quegli anni frenetici. Dove al Madison Square Garden campeggiava l’incontro di box tra Perry e McDaniels. E dove le macchine ancora erano poche ma si facevano notare per la loro linea morbida dai colori scintillanti. Non c’erano graffiti, né iPod o iPad, la borghesia scivolava ignara e felice sulle strade con modi pacati ed eleganti. Eppure, i miti, le speranze, le illusioni erano le stesse di adesso. Con una sola piccola differenza: oggi il web ha reso tutti uguali perché tutti coscienti di un mondo che rotola sempre più nell’avidità di menti oscure, invasive e contagiose. Ma basta perdersi nella calda umanità newyorkese per dimenticare anche questo e soprattutto per ricordare quanto sia bello respirare quel ritmo, quella vitalità, quella energia. Non si saprà mai chi ha immortalato queste foto raccolte nel libro – tra l’altro – scrivendo accanto ad ognuna il nome della strada, degli edifici, quasi a rimarcare che a New York non ci si perde mai. Nonostante tutto.Certo è che chiunque abbia scattato queste immagini non era interessato ai grattacieli, alle loro luci, alla loro sfarzosità. Ma ha invece colto la poesia della Grande Mela, quella che vive dal basso e guarda tutto senza incanto, senza illusioni, però con l’anima pulita e minimalista di un fottuto illuso hopperiano. Corrono alla memoria film, musical, spettacoli di Broadway, dove ad imperare sono soprattutto i marciapiedi. Quei marciapiedi che a New York ispirano lirismo. Il desiderio di questo artista centra lo spirito newyorkese, persino quando immortala il General Post Office, edificio di certo poco americano, ma che richiama alla memoria i tanti trambusti di ogni giorno. In questo gioco del bianco e nero non vengono messi da parte gli storici ponti, il George Washington Bridge, né le notti al Paramount e nemmeno i «trecento metri di altezza, in pietra, ferro e vetro, verticali nel magnifico cielo blu di New York… Rappresentano un fatto nuovo nella storia umana che, su tale tema, finora possedeva un’unica leggenda: quella della torre di Babele», come scriveva Le Corbusier. E ancora, l’occhio di questo anonimo fotografo poeta rievoca lo stupore del «Grande Gatsby». Persino in quegli anni terribili della Guerra. E si perde nella Gracie Mansion, nelle case coloniche olandesi o nel monumento ai soldati. Quasi a ricordare l’intento originario di New York che, almeno all’inizio, raccolse mercanti e marinai.

Dina D’Isa