Enrico Mattei 50 anni dopo: L’Italia che vinse il dopoguerra (Gli Altri)

Nelle fasi di ricostruzione di un Paese la formazione tempestiva di una classe dirigente è una risorsa economica e politica di primaria importanza. Nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, Luigi Einaudi si preoccupò di aprire a Lubiana una scuola nella quale preparare per tempo dirigenti in grado di gestire la ripresa dell’economia italiana. Poteva sembrare un’iniziativa bizzarra, con il Paese ancora sotto le bombe. Si rivelò invece il migliore investimento ai fini della ricostruzione economica e sociale. Oggi, al contrario, non c’è alcuna progettazione del fututo nè si vede chi possa gestirla. È una delle differenze macroscopiche tra due situazioni per molti aspetti simili. Anche ora, infatti, ci troviamo nel cuore di una guerra in piena regola, pur se combattuta senza spargimenti di sangue. Al termine della quale rischiamo però di trovarci senza un personale politico e amministrativo dotato di senso dello Stato e adeguato ai compiti che lo attendono. Questa guerra ha come posta in gioco il controllo dei brevetti, delle menti e dei saperi, cioè della principale risorsa produttiva del futuro. Si combatte su tre trincee distinte ma correlate: quella dell’innovazione e della ricerca, quella del costo dell’energia attraverso la nuova frontiera delle rinnovabili e quella della edificazione di un sistema-Paese in grado di rispondere alle richieste in tempi rapidi e certi invece che in quelli lunghissimi e incerti imposti dalla burocrazia. L’esito di questo conflitto traccerà la linea di demarcazione tra le aree dominanti e quelle subalterne. Le prime gestiranno, appunto, i brevetti e le concentrazioni di cervelli e di potenzialità innovative. Le altre, fra le quali figura oggi il nostro Paese, saranno costrette a lavorare “in conto terzi”: dunque senza capacità creative ma condannate, pur essendo il secondo Paese manifatturiero del continente, a sbrigare i lavori commissionati dalle potenze dominanti. Il che comporterà, inevitabilmente, tra i tanti prezzi, anche quello di una conflittualità sociale endemica e irresolubile. La Germania sta attualmente vincendo la guerra in virtù di un’arma sola ma estremamente potente: il costo del denaro. Grazie a una moneta unica non costruita come moneta della federazione europea ma messa invece al servizio dell’economia più forte, i tedeschi pagano gli interessi sul denaro sei o sette volte meno del resto dei Paesi europei. La conseguenza diretta è un’egemonia totale, indiscussa e crescente nella ricerca, nella progettazione e nella creazione di nuovi brevetti. La possibilità di pagare il denaro infinitamente meno degli altri Paesi garantisce alla Germania il trionfo sui fronti dell’innovazione e, attraverso la nuova frontiera delle rinnovabili, del costo dell’energia. Nel dopoguerra l’Italia riuscì a vincere la sfida per il rilancio dell’economia grazie a due armi eminenti: la metanizzazione del nord, grazie alla quale era possibile disporre di energia a basso costo e dunque di copetere sul mercato internazionale e l’elettrificazione dell’intero Paese. In sè, l’elettrificazione non garantiva a breve alcun vantaggio economico. Si trattava di scommettere sul fatto che, nel tempo, l’arrivo della luce anche nelle campagne sperdute avrebbe determinato la nascita sia di un intero nuovo sistema industriale che di un nuovo e infinitamente più vasto mercato per i consumi. Era cioè uno di quegli investimenti pubblici lungimiranti che connotano una classe politica capace e non parassitaria. I compiti con cui dovrà misurarsi la classe dirigente italiana di domani, nel quadro del conflitto per il controllo dell’innovazione con tutto ciò che ne consegue, appaiono dunque abbastanza chiari. Per competere con l’egemonia tedesca occorre un processo che, quanto a riduzione del costo dell’energia, regga il confronto con la metanizzazione del dopoguerra. La sola via praticabile è rappresentata dalle rinnovabili, dall’investimento forte su una green economy non più intesa solo come esigenza ecologica ma come elemento strategico e come risoluzione industriale a tutto campo. Solo attraverso una nuova industrializzazione fondata sulle rinnovabili possiamo accedere a un sistema competitivo a basso costo. Di conseguenza bisogna assegnare a Eni e Finmeccanica una missione nuova ma analoga a quella svolta durante la ricostruzione. Allora bisognava conquistare un’autonomia petrolifera dalle famose “Sette Sorelle”. Oggi è in gioco l’autonomia energetica a un costo competitivo. Inoltre, la scommessa sulla banda larga non è dissimile da quella sull’elettrificazione. Anche in questo caso non si tratta di fare conti miopi sul guadagno a breve ma di rendersi conto che di qui a pochissimo sarà letteralmente impossibile generare attività economiche rilevanti senza lo possibilità di comunicare a velocità enorme. Tutto ciò richiede ovviamente una attività di programmazione che l’Italia ha dimenticato da lungo tempo. Dopo lo smantellamento dell’Iri, del tutto giustificato dal momento che era diventato un ricettacolo di tangenti e clientele, non sono più stati costruiti sistemi di programmazione industriale. Questa direzione di marcia deve essere invertita se si vuole arrestare il declino. Altrettanto fondamentale è la capacità di superare l’ostacolo costituito da una burocrazia fatta apposta per rallentare e soffocare invece che per accelerare e incentivare. Sappiamo come risolse il problema Enrico Mattei, e cioè aggirandolo. Dobbiamo ancora trovare una chiave moderna per superare le sabbie mobili della burocrazia italiana e delle occasioni che essa offre alla corruzione. Tutto ciò rinvia al problema numero uno: l’esistenza di una classe dirigente adeguata alla portata della sfida. In ultima analisi, come usciremo dal dopoguerra prossimo venturo dipende tutto da questo. È quindi urgentissimo mettere subito mano alla sua formazione, come face Luigi Einaudi a metà degli anni ’40. È altrettanto importante introdurre subito criteri di valutazione dei dirigenti pubblici simili a quelli che si usano per i manager privati. In altri termini, bisogna imporre un criterio di responsabilità dell’intero apparato pubblico, a partire dai dirigenti e non come al solito dai dipendenti, che possa mettere rapidamente quell’apparato a disposizione della ricostruzione del Paese. In fondo, se un bene pubblico non è efficiente non è più un bene. E non è più neppure pubblico. Maurizio Zipponi