Il talento di persuadere (Capital)
Negli Usa sono riconosciuti dalla Costituzione, in Italia non hanno ancora un’immagine definita. Ma i lobbisti si muovono con disinvoltura a Bruxelles come nei palazzi romani, conoscono chi conta e sanno farsi ascoltare. Spesso scrivono gli interventi dei parlamentari e intere leggi. Ecco chi sono e perchè sono richiestissimi.
Un decreto appena varato rischia di nuocere al vostro mercato? Una legge in discussione in Europa interferisce con i vostri affari? Un vostro nuovo prodotto ha bisogno di un’autorizzazione legislativa? Ci pensa il lobbista, ovvero il professionista dell’arte di trattare con le istituzioni. E convincerle. Un superconsulente che fa da ponte tra affari pubblici e interessi privati, si muove con disinvoltura nelle stanze dei bottoni, individuando gli interlocutori giusti. E al momento adatto, entra in azione con un solo obiettivo: portare a casa provvedimenti favorevoli per i suoi rappresentanti. Un signore che agisce con discriezione, riservatezza e passo felpato ma che con quel passo può arrivare molto lontano. Come Gianni Letta , per esempio, oggi numero due del governo di Silvio Berlusconi, che alla corte del tycoon di Arcore entrò nel 1987 come vicepresidente della Fininvest Comunicazioni e vi conferì tutta la rete di rapporti che aveva costruito negli anni precedenti, radicando nella Roma politica quel gruppo ancora molto milanese e avvicinandogli simpatie ed attenzioni che fino ad allora neanche gli smaglianti sorrisi del capo avevano saputo procurare. E fu anche per questi meriti diplomatici che Berlusconi lo volle al suo fianco fin dal primo governo, come sottosegretario alla presidenza, assiso sulla poltrona più delicata quando si tratta di mediare, troncare, sopire e ricucire. Già, perchè il fare lobby può essere un impegno assorbente e uficiale, in questo caso, l’etichetta nel mondo privato è quella di direttore relazioni istituzionali o public affairs. O può essere un’attitudine naturale, un modo di porsi nel sistema, pur facendo prevalentemente attività diverse: dalla comunicazione alla finanza, dalla gestione aziendale a una qualunque professione libera. E del resto il lobbying diviene, per chi sa far carriera, una sorta di snodo dal quale transitare per capire dall’interno come funziona il sistema del potere, sia pubblico sia privato, provenendo dalle funzioni più varie per poi spesso raggiungerne di nuove e più importanti. “è un ambito che richiede flessibilità, voglia e capacità di imparare, ma può portare lontano”, osserva Fabio Corsico, giovane e autorevole direttore delle relazioni esterne e istituzionali e dello sviluppo del gruppo Caltagirone, che rapprensenta nei consigli di numerose società partecipate (da Alleanza Toro a Grandi Stazioni a Cementir) oltre a essere consigliere della Fondazione Crt e senior advisor di Credit Suisse in Italia. Grandi capacità di lobbying hanno accompagnato la crescita del ruolo di un personaggio come Fabrizio Palenzona, presidente di Aeroporti di Roma ma, al di là della funzione, punto di riferimento di numerosi gruppi d’interesse: dalle findazioni bancarie a tutto il gruppo Benetton, dalla categoria degli autotrasportatori a quella dei gestori autostradali. Trasversale e molto più incisivo di quanto la sua etichetta aziendale potrebbe da sola comportare (è direttore relazioni esterne del gruppo Ilte), è anche Luigi Bisignani, già giornalista dell’Ansa, tra i consiglieri più ascoltati da Gianni Letta, ma anche da molti top manager sia pubblici sia privati. Un altro nome-chiave a Roma è quello di Luigi Vianello, direttore della comunicazione del gruppo Generali, ex direttore dell’Agenzia Radiocor, ascoltato consigliere del presidente del colosso triestino Cesare Geronzi: si occupa dell’azienda, naturalmente, ma con una spiccata capacità di guardare all’insieme delle dinamiche del sistema del potere economico-politico italiano. Già, perchè un grande lobbista può dedicarsi alla cura di un unico soggetto, cliente o datore di lavoro che sia, ma comunque deve avere sempre relazioni a 360 gradi. Come ha fatto per anni, pur non avendo mai lasciato il gruppo Eni, un altro ex giornalista, Alberto Meomartini, oggi presidente di Assolombarda ma per decenni pilastro della comunicazione dell’azienda petrolifera, poi amministratore delegato della Snam e infine grand commis della reppresentanza imprenditoriale. Storie simili quella di Ernesto Auci, oggi direttore delle relazioni istituzionali del gruppo Fiat, dopo essere stato direttore delle relazioni sterne della Onfindustria ma anche direttore responsabile e amministratore delegato del Sole 24 Ore, o di Maurizio Beretta, ex vicedirettore del Tg1 e poi direttore delle relazioni istituzionali in Fiat, oggi direttore generale della Lega Calcio ma in procinto di trasferirsi a Unicredit come capo della comunicazione. Tutti lobbisti? È più esatto dire tutti anche lobbisti, ciascuno col suo mestiere d’origine, le sue relazioni, le sue attitudini. Comunque, gente che vale, che pesa. Certo, spesso lobby e lobbisti sono accostati dai media a interessi di parte, anche discutibili e controversi. Ma è fatale, perchè quasi sempre sostenere un interesse implica lederne un altro. Che si ribella. Si scoprono, per esempio, i “troppi lobbisti del codice stradale” che, denuncia la onlus Familiari e vittime della strada, “cercano di infilarsi in ogni modifica legislativa”. E poi, la “lobby degli shampoo”, 15 aziende di cosmetici, tutte le più grandi, che hanno fatto cartello per tenere i prezzi alti, ma sono state smascherate dall’Antitrust. O, ancora, quelle dell’amianto, al plurale, che “hanno bloccato efficaci misure anticancro”.
Consulenze alla luce del sole
“Stereotipi”. “Clichè superficiali duri a morire”. “Paragoni impropri e abusi del linguaggio, non solo giornalistico, che distorcono la nostra funzione”, ribatte che fa lobby per professione in Italia. E spiega che si continua a confondere lobby con corporazioni, consorterie, comitati d’affati o, peggio, con potentati oscuri al confine del malaffare. Ma il lobbismo, quello vero, non ha niente a che fare con il clientelismo nè con gli intrallazzi. Piuttosto, è “la capacità di rappresentare interessi leciti, in modo trasparente, presso i decisori pubblici”. Una “zona grigia tra conflitti d’interesse e intrecci tra politica e affari” esiste, ammettono gli specialisti. Ma, “sta in tutto il sistema”, dice Franco Spicciariello, 37 anni, cofondatore della Open Gate Italia e professore di lobbying alle università romane Lumsa e Tor Vergata. “L’avvocato che va in piscina con il giudice o giocare a tennis con il pm non è zona grigia?”, si chiede. E afferma che “quando la zona grigia si fa corruzione, si tratta di patologia”, non di lobby. “Infatti, i lobbisti professionali rendono un servizio al sistema democratico”, rincara Gianluca Comin, direttore delle relazioni esterne e istituzionali del gruppo Enel, il primo in Italia ad aver formalmente accorpato le due cruciali responsabilità nelle mani dello stesso manager. “Noi lobbisti, perchè anch’io mi considero tale senza alcun imbarazzo, siamo chiamati a coprire un gap informativo tra gli interessi legittimi delle aziende o comunque dei soggetti per i quali lavoriamo e le competenze dei decisori politici”. Oggi c’è un sistema di regole europee, che in mancanza di una legge nezionale, fa da punto di riferimento. Ci sono master e corsi di studi. E soprattutto c’è un mercato che tiene anche in tempi di crisi. L’anno scorso, stima la Lumsa, le imprese italiane hanno speso in lobbying circa 150 milioni di euro: molte hanno un responsabile relazioni istituzionali in casa, altre si rivolgono a un consulente esterno, alcune (le più grandi) si servono di entrambi. Sul fronte opposto, i decision maker nazionali, ovvero ministri e sottosegretari, funzionari e parlamentari, membri delle Authority e assessori regionali, ricevono abitualmente i lobbisti e non lo nascondono.
Dal Chiostro a K Street
C’è chi fa derivare il termine lobby dal corridoio in cui i parlamentari inglesi si riunivano prima di entrare in aula nel Settecento, chi lo collega alle schiere di questuanti che stazionavano nell’hotel del presidente Usa, Ulysses S.Grant, nel secondo Ottocento. “Lobby deriva dal latino lobium, che significa chiostro ed evoca qualcosa di più nobile dell’atrio di un albergo o di un corridoio”, fa notare l’associazione italiana per la trasparenza delle lobby, battezzata, per l’appunto, Il Chiostro, e fondata dal direttore dei rapporti con le istituzioni del gruppo Allianz, Giuseppe Mazzei. L’ex consulente del Dipartimento di Stato americano, Edward Luttwak, sostiene che le lobby sono “sempre esistite nei regimi democratici”, a cominciare dall’antica Atene, dove prima di introdurre una nuova imposta, l’Assemblea ascoltava le argomentazioni pro e quelle contro. Nella culla delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti, la legittimità delle lobby è sancita nel primo emendamento della Costituzione (“Il Congresso non promulgherà leggi che limitino il diritto delle persone di fare petizioni al governo per la ripartizione di torti”). La prima legge in materia risale al 1946. A luglio 2010, sul pubblico registro delle lobby risultavano accreditati 11.900 lobbisti. Le spese pro lobbying dei numerosissimi gruppi di interesse made in Usa sono ammontate a 3,49 miliardi di dollari nel 2009 e a 1,78 miliardi nel primo semestre 2010. “I lobbisti mi fanno comprendere un problema in 10 minuti e tre pagine, i miei collaboratori impiegano tra giorni e una tonnellata di carta”, riconosceva il presidente John F. Kennedy. Mentre a Washington c’è addirittura una strada diventata l’epicentro e il simbolo delle lobby: K Street, detta il Fossato di Gucci dai lussuosi mocassini italiani indossati dai lobbisti. Anche all’Unione europea il lobbismo è riconosciuto, regolamentato e regolarmente interpellato. A Bruxelles si stima sia in servizio un’armata di 15mila lobbisti. Nell’albo istituito alla Commissione due anni fa, si sono iscritti solo in 2.067, ma la registrazione è volontaria. In quello analogo del Parlamento europeo, che risale al 1996, sono 4.353, ben 1.793 dei quali di nazionalità italiana, molto ricercati e apprezzati dalle società internazionali di public affairs che lavorano in Europa. La regione? Avvezzi alla tortuosa arena nazionale, non si lasciano disorientare dalla burocrazia comunitaria, come accade ad altri europei. E del resto le multinazionali italiane pilotano dall’Italia le loro lobby in giro per il mondo: come fa l’Eni, sotto la guida di Stefano Lucchini, senior executive vicepresident public affairs and communicatios, che opera in oltre 70 paesi. “Per noi è indispensabile saper fare lobbying in tutti i territori in cui lavoriamo”, spiega il manager, “costruendo solide relazioni con i territori e con gli stakeholders con cui il gruppo interagisce. Tra i nostri principi fondanti c’è un sistema di rapporti istituzionali improntato alal correttezza, alla trasparenza, e al dialogo, necessario per creare valore e opportunità di sviluppo. La squadra del lobbying coordina dall’Italia, sotto la guida di Leonardo Bellodi, già responsabile del nostro ufficio di Bruxelles, l’attività in tutto il mondo”. “La capacità essenziale richiesta a un lobbista”, riprende Comin, “è quella di informare i decisori sugli obiettivi dell’impresa. Una volta, potevano cavarsela con un appunto. Ora bisogna parlare con tanti. Il politico è un generalista, ma è decisivo. Con lui non basta più essere amici, bisogna usare il linguaggio giusto, occorre un preciso know how procedurale”.
Nei meandri della politica
“Prima di Tangentopoli, più che lobby giravano mazzette”, tagli corto Franco Spicciariello. “Fino a 15 anni fa, a fare lobbying erano soltanto politici in carica ed ex giornalisti parlamentari o sedicenti tali, più un variopinto mondo di amici degli amici che vendeva conoscenze ed entrature”, scende nei dettagli Vittorio Cino, 41 anni, direttore relazioni istituzionali della British Gas in Italia. Caduti i partiti di allora, dopo l’inchiesta Mani pulite, le associazioni di categoria e le aziende hanno dovuto rendersi autonome e imparare a fare lobbying. Le prima società sono nate allora. La pioniera? Public Affairs di Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna Agnelli, che ha tra l’altro sostenuto la liberalizzazione postale, con ottimi risultati.
E il made in Italy...
Oggi, in Italia, si contano circa 1.200 lobbisti professionisti. Lavorano per grandi imprese nazionali, associazioni di categoria e multinazionali straniere che hanno investito in Italia o vorrebbero farlo, ma prima intendono accertare se ne vale la pensa. Sul mercato si stanno affacciando medie e persino piccole aziende, che per permettersi il lobbying hanno preso ad associarsi. Le società di consulenza italiane specializzate in lobbying sono una decina, per un giro d’affari complessivo di circa 50 milioni di euro l’anno. La più grande è Reti, fondata nel 2000 da tre ex collaboratori di Massimo D’Alema: Massimo Micucci, Antonio Napoli, Claudio Velardi. E diventata la prima per fatturato: oltre 4 milioni, con una galassia di controllate che comprende una filiale spagnola e la sede centrale a Roma, nello stesso Palazzo Grazioli dove risiede Silvio Berlusconi. Con 2,2 milioni di ricavi messi a segno l’anno scorso, seconda in classifica è la Cattaneo Zanetto & Co. Creata cinque anni fa da Alberto Cattaneo e dall’ec vice coordinatore dei giovani di Forza Italia, Paolo Zanetto, nel marzo scorso ha aperto una consociata a Bruxelles in joint venture con uno del lobbisti più famosi d’America: Jim Fabiani, artefice del successo della prima agenzia di Washington, la Cassidy & Associates, nonchè compagno di scuola di George W. Bush. Nella graduatoria italiana per fatturato seguono la Fb varata dal decano Fabio Bistoncini nel 1996, la Open Gate Italia e un manipolo di realtà emergenti come la Strategic Advice di Gabriele Cirieco, 40 anni, che in passato ha assistito la Federazione del wrestling e ora ha clienti eccellenti come Alcoa, la numero uno mondiale dell’alluminio.
Roma lobbona
La mappa dei lobbisti si è oggi allargata. Va da Bruxelles e arriva fino agli enti locali italiani. “Dal 2001, quando la riforma del titolo V della Costituzione ha affidato alle regioni le competenze su molte materie, non si può più prescindere da un’azione di lobbying a livello locale”, osserva Vittorio Cino della British Gas: e detto da lui, che da anni è alle prese con un prgetto di rigassificatore a Brindisi autorizzato dal governo, ma bloccato dalle istituzioni pugliesi, c’è da crederci. La capitale del lobbismo all’italiana, però, resta Roma. Oltre a governo e Parlamento, hanno sede qui tutti i decisori più importanti: la Consob e le altre autorità indipendenti, il Tar del Lazio e il Consiglio di stato, la Conferenza stato-regioni, la rappresentanza della Commissione europea in Italia. Pure i governatori regionali sono più accessibili e disponibili a Roma, dove passano un paio di giorni a settimana almeno. Ma i lobbisti tricolori non marcano a uomo i politici nei corridoi del potere, come accade nei film. “Più che il Transatlantico è la città a essere intestata di lobbisti”, spiega il deputato del Pd, Giulio Santagata, che da ministro per l’Attuazione del programma nel secondo governo Prodi fu autore di un disegno di legge sul lobbismo considerato molto avanzato. “A Roma ci s’incontra anche senza volerlo”, aggiunge. “Si tengono un’infinità di convegni, e feste, salotti, punti di ritrovo”. Come Il Bolognese, ristorante di piazza del Popolo sempre pieno di gente che conta. O il Salotto 42 di piazza di Pietra, che alle sette di sera brulica di assistenti parlamentari, funzionari governativi e lobbisti di ogni specie, millantatori compresi.
Benefici non solo per il singolo
“La società è molto frammentata”, nota Santagata, “dunque fatica a essere rappresentata dalle organizzazioni storiche. Una serie importante di interessi non riesce a trovare il giusto ascolto sui tavoli di concentrazione”. Il ruolo dei lobbisti entra in gioco qui. Non avvocati del diavolo, ma “esperti di settori potenzialmente coinvolti dall’emanazione di una norma”, portano il loro punto di vista all’attenzione dei politici. “Ed è sacrosanto che lo facciano”, commenta Santagata. “Decidere nel nome dell’interesse generale è più facile se si conoscono gli interessi particolari implicati”. Sull’analisi di Santagata concorda la schiera dei professionisti del lobbying al completo. “Integrando le competenze dei politici, creiamo i presupposti perchè prendano decisioni informate”, riassume Gabriele Cirieco. “Ma attualmente la mancanza di una regolamentazione lascia spazio a millantatori e faccendieri che si inseriscono in quelli che dovrebbero essere normali percorsi di rappresentanza di interessi legittimi e trasparenti”, osserva Fabrizio Contofanti, 38 anni, manager delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia di Francesco Caltagirone Bellavista, con un trascorso di comunicatore istituzionale nelle Forze Armate e nella Croce Rossa. “La nostra è una professione molto interessante e dinamica che richede curiosità, sensibilità e rispetto dell’interlocutore”, aggiunge Filippo Maria Grasso, giovanissimo (32 anni) capo delle relazioni istituzionali del gruppo Pirelli. “L’accesso ad alcune relazioni, come pure la capacità di contribuire alla formazione delle decisioni pubbliche, non è soltanto una sifa, ma rappresenta anche una vera e propria assunzione di responsabilità”.
Faccio cose, vedo gente
“Fai tu le regole. O le faranno i tuoi rivali”. La Cattaneo Zanetto & Co condensa così i vantaggi del lobbying per chi fa impresa. “Se un’azienda entra nella logica di non subire più le novità che la riguardano, può diventare protagonista nella scrittura delle regole del suo gioco”, traduce Paolo Zanetto, “perchè cercare di cambiarle una volta scritte, è dura”. Ma come si fa? In che cosa consiste, nella pratica, il mestiere del buon lobbista? La premessa è un’analisi approfondita del settore nel quale opera il committente e dei suoi bosogni. Chiariti lo scenario e gli obiettivi, si delinea la strategia d’intervento nei rapporti col potere, che comprende due mosse fondamentali: il monitoraggio istituzionale e la mappatura dei decisori. Antenne dirette al governo, in Parlamento e ovunque si decida, da una parte; database con l’identikit di chi conta e come fare per agganciarlo, dall’altra. Amicizie e conoscenza non guastano, ma non bastano. “Una strategia di lobby non si risolve con una telefonata a un ministro”, avverte Franco Spicciariello. “è un lavoro che deve partire da lontano”, spiega. E rivela che “capi di gabinetto e degli uffici legislativi, dirigenti e assistenti delle autorità indipendenti, nel nostro lavoro sono utilissimi, per loro, che sono dei tecnici, non di organizzano congressi alle Maldive, ma seminari super professionali”. Per i politici tout court, meglio “organizzare una cena, mettendoli a tavola con una decina di imprenditori top”. Non si pensi a un inciucio. “Il politico serio ha interesse a conoscere le problematiche delle imprese di un dato settore”.
Costruire il consenso
Cene e convegni, e a volte feste o salotti, servono a conoscere le persone che contano e alla buona manutenzione dei rapporti. Ma gli interessi si difendono meglio “sui giornali, nel senso che si promuove un dibattito pubblico intorno a una questione, e soprattutto su appuntamento, incontrando i decisori nelle sedi instituzionali in modo trasparente”, avverte Francesco Delzio, 36enne direttore affari istituzionali alla Piaggio e alter ego di Roberto Colaninno. “Per approfondire un problema bisogna guardarsi negli occhi”, conviene Paolo Zanetto e spiega che “all’Unione europea è tutto più facile. Se rappresenti una realtà significativa ottieni un colloquio senza problemi”. In Italia il percorso è più intricato. “C’è più difficoltà ad aprire la porta. Anche se, poi, l’interesse ad ascoltare non manca”. A Bruxelles come a Roma, comunque, “l’accesso, da solo, non vale”. Quel che conta, mette in guardia Zanetto, è “dire qualcosa di rilevante ei tuoi interlocutori, portandogli informazioni che non aveva, analisi e pensiero intelligente. Il 90% della mia attività non consiste nel trovare la persona alla quale telefonare, ma studiare quello che dovrò dire”. “Se non dai informazionin esatte o spingi per una decisione in modo acritico, perdi credibilità”, rincara la dose Gabriele Cirieco. “Mai domandare un appuntamento se non si ha nulla da chiedere o da dimostrare e mai uscirne senza aver ottenuto qualcosa”, raccomanda Vittorio Cino.
La legge della lobby
Nell’armamentario del buon lobbista la carta segreta, però, è quella che in gergo si chiama drafting legislativo e consiste nel vergare di proprio pugno interrogazioni parlamentari, emandamenti e addirittura interi disegni di legge. La prassi è consolidata. “Alcuni scrivono persino gli interventi, sennò certi miei colleghi non saprebbero che cosa dire”, punzecchia l’ex ministro della sanità, Mariapia Garavaglia. Ora senatrice Pd e autrice del più recente disegno di legge per legalizzare le lobby, spiega che “noi politici siamo chiamati a decidere su un’infinità di cose, ma non possiamo sapere tutto”. E nei lobbisti legiferanti non vede “nulla di male. Quando vengono a spiegarci le conseguenze di una norma, e ne ho incontrati di molto bravi e seri che mi hanno anche istruito, scrivessero pure l’emendamento. Poi sta al politico appoggiarlo o meno, decidendo nell’interesse generale”. I problemi, in effetti, sembrano altri. La corruzione, che “ancora c’è, ma se uno non vuole farsi pagare nessuno gli offre i soldi”. Spacciatori di relazioni e traffichini che promettono favori in cambio di piaceri, che “circolano e sempre circoleranno”. E poi sì, “è vero, con questa legge che ci ha eletto per cooprazione dei nostri capi di partito, noi parlamentari oggi contiamo poco”. Ma il problema dei problemi, forse, sta in una leggina bipartisan approvata senza clamore nel 2006, che ha quasi duplicato, da 6 a 50mila euro, il tetto dei contributi anonimi che un privato o un’azienda può elargire ai partiti e singoli politici. Magari, sapere chi finanzia chi e perchè, sgombrerebbe il campo da molti equivoci e distorsioni: non solo sui lobbisti.
Alessandra Gerli